È iniziata il 27 Luglio 2007 la storia dell’Abisso di Rupingrande. Almeno per il CAT. “Avevamo deciso di abbandonare, almeno provvisoriamente, l’Abisso dei Morti perché, dopo 140 uscite, non si arrivava a nulla e non sapevamo davvero più dove stivare il materiale”, racconta con un contagioso trasporto Moreno, capocantiere di Repen e detentore del poco invidiabile record di uscite nell’Abisso di Rupingrande. “Il merito dell’idea di scegliere Repen come meta per il cantiere va tutta a Nano” continua Moreno. “Si ricordava di una fessura soffiante a – 115 metri, vista negli anni Novanta, durante l’esplorazione di un ramo in risalita”. Ora quell’intuizione ha portato Nano, Moreno, Christian, Daniela, Gianfranco M., Giuly, Gianfranco T. e Daniele a – 317,5 metri, facendo dell’Abisso di Rupingrande la quarta grotta, per profondità, del Carso Triestino. Una delle cinque – 300 della provincia di Trieste. E non si sa ancora come finirà: la grotta, per ora, chiude con un meandro allagato. Ma come è iniziata questa avventura? “La prima sensazione, scesi nella grotta, è stata immediatamente positiva”, spiega con entusiasmo Moreno. “Era stata scoperta nel 1957, durante i lavori di allargamento della strada, e la Commissione Grotte dell’Alpina delle Giulie l’aveva esplorata sino a 115 metri di profondità. Poi era stata dimenticata. Tanto che era diventata un pozzo nero. Noi abbiamo trovato da subito una prosecuzione, evidente, che poteva portare a qualcosa di buono”.
C’era anche Daniela, foto reporter ufficiale della grotta/cantiere. “Ricordo ancora l’emozione di tutti alla scoperta della prima saletta, con la strettoia, mai allargata per la fretta di qualcuno, e poi infatti battezzata “passaggio del Nano bastardo”, ed il rimbombo, ad annunciare il primo grande ambiente, il pozzo da quaranta. Rimbombo che poi ci ha accompagnato in più occasioni, incitandoci a non mollare”.
La decisione di trasformare l’Abisso di Rupingrande nel nuovo cantiere del Cat, quindi, era stata immediata. Nonostante la presenza, ingombrante della fogna. “Dopo le grandi fatiche dello scavo all’Abisso dei Morti avevamo voglia di impegnarci, di nuovo, in qualcosa di concreto, ma anche di continuare a stare insieme. All’Abisso dei Morti il nostro obiettivo era stato il raggiungimento della mina, anche per chiarire tanti dubbi che ancora rimanevano su quella grotta. A Repen invece, puntavamo a qualcosa di indefinito. Anche perché, “continua Moreno”, l’idea del Timavo si è concretizzata solamente a – 271 metri. Proprio a quella quota Giuly ha visto il nostro primo Troglocharis, il piccolo crostaceo delle acque sotterranee.
Qualche uscita dopo, in seguito ad una forte pioggia, ”aggiunge Moreno”, abbiamo bloccato il discensore con i piedi in ammollo nell’acqua, risalita lungo i pozzi fino alla quota di – 230 metri, quindi per ben 90 metri, e la gioia di tale scoperta ci ha ben ripagato dei danni causati dalla piena al campo base”. Anche se in fondo tutti avevano pensato al fatto che la Lazzaro Jerko fosse vicina e che quindi il Timavo, lì sotto, potesse anche esserci. Certo, il lavoro non è stato facile. Da – 115 a – 270 la grotta non ha mai concesso nulla. I novelli Grottenarbeiter hanno allargato cunicolo dopo cunicolo, godendosi solo la discesa di alcuni bei pozzi. “Sino a – 200 abbiamo lavorato con il trapano a batteria, 11 chili da portare giù e poi da riportare in superficie”, spiega Moreno. “Poi ci siamo resi conto che il cunicolo era davvero lungo e che allargarlo non sarebbe stato facile: così abbiamo optato per l’elettricità, portando in profondità centinaia di metri di cavo. Abbiamo inoltre preparato una porta stagna, a 170 metri di profondità, per forzare l’aspirazione dell’aria. Avanzando, quindi, dovevamo portare con noi sia il cavo della corrente che il cavo di comando dell’aspiratore, un lavoro impegnativo che si è protratto per oltre 100 metri”.
Ma le difficoltà, ovviamente non erano finite qui. A – 271 metri è stato svuotato un sifone con l’idea, balenata a Moreno in una notte insonne, dei big bag, uno di quegli enormi sacchi in polipropilene usati per spostare il materiale con le gru. Un’idea balzana, all’apparenza, ma efficace. Il big bag è stato reso impermeabile con un foglio di nylon da 16 metri quadrati e aperto, in grotta, con due distanziatori, in pratica una coppia di tubi innocenti adattati, all’interno dei quali passava un cavo che l’avrebbe tenuto sospeso. Svuotato il sifone, lungo 11 metri, è iniziata una grana ancora più grossa. “Da – 270 a – 300 circa abbiamo lavorato per due anni nel cunicolo Infinity”, spiega Moreno. “Sono 76 metri di sviluppo per 29 metri di dislivello, di cui 20 di pozzi naturali, il resto in cunicolo, nella prima parte, e poi in meandro. Un cunicolo duro, faticoso, perché non c’era davvero lo spazio per muoversi, per lavorare”.
Nonostante l’impresa da talpe il lavoro è andato avanti. “Fino a quando siamo arrivati a – 300: giunti in una saletta abbiamo individuato la prosecuzione, ma ci siamo trovati in grande difficoltà perché non avevamo spazio sufficiente per stivare il materiale”, commenta il capo cantiere dell’Abisso di Rupingrande. “Sabbia e pietre sono state allora sistemate in robusti sacchi di nylon con i quali abbiamo creato un muro, una vera e propria diga di contenimento, dietro alla quale ha preso posto il rimanente materiale”.
L’obiettivo, il raggiungimento delle acque di base, a – 315 metri circa, a quel punto era davvero vicino. “E tutto quello che troveremo sarà ben accetto”, diceva Moreno. Alla fine i nostri eroi ce l’hanno fatta. L’11 febbraio 2012 sono arrivati alle acque di fondo. Con tanta, tanta emozione. All’ultima uscita è stata fatta un bel po’ di strada. “Dal cunicolo che stavamo allargando abbiamo sceso un pozzo da quattro metri e ci siamo ricongiunti con le acque che si perdevano dalla metà del meandro, visto che qualche metro più in alto avevamo seguito la via fossile. Alla base di questo pozzo c’erano dei grossi depositi di sabbia e argilla e dopo tre metri circa ci siamo affacciati su un altro pozzo, da 8 metri. Qui si sentiva già il rumore delle gocce dello stillicidio che, cadendo dall’alto, si infrangevano su una superficie d’acqua. Dopo una breve curva ci siamo affacciati su un altro saltino di cinque metri che ci ha portato ad un grosso accumulo di sabbia”, spiega con trasporto Moreno. “Il pozzo è impostato su una frattura e alla sua base abbiamo incontrato un sifone, zeppo di Troglocaris, o le acque di base, è tutto ancora da verificare. Si vede la prosecuzione per altri quattro metri, poi non si capisce se la grotta continui ancora. Adesso, quindi, abbiamo tre opzioni: potremmo verificare con maschera e bombola se si tratti di un sifone percorribile, potremmo seguire la frattura ad andamento orizzontale o potremmo cercare di svuotare, sempre con il sistema della big bag, il sifone. Se poi l’esito sarà negativo ritorneremo sui nostri passi e cercheremo delle altre prosecuzioni. Ma speriamo che non ce sia bisogno”.
Ma alla fine la soddisfazione più grande a Repen, sinora, qual è stata? “Direi la chiusura della fogna che lordava la grotta, che ci ha permesso di lavorare più in tranquillità, ma ha anche restituito ai pozzi la loro originale bellezza”, risponde Moreno. “e poi la scoperta, alla fine del 2010, del pozzo da 30 metri che ci ha portato da – 240 a – 270. Dopo tanta fatica finalmente scendevamo un bel po’ senza scavare. Alla fine c’è anche l’orgoglio di essere una vera squadra” aggiunge sorridendo Daniela “una squadra capace con determinazione, ostinazione, e, quando non bastano, con un po’ di fantasia, di affrontare e superare difficoltà che i più avrebbero giudicato insormontabili”.
Hanno partecipato: Daniele Contelli (Nano), Christian Giordani, Gianfranco Manià, Daniela Perhinek, Anna Pugliese, Gianfranco Tommasin, Moreno Tommasini, Daniele Viti, Giuliano Zivoli.
Tratto da "TUTTOCAT " 2011
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